Gli anni “70-80 quando Ortigia era un bordello a cielo aperto. Le “Buttane” del Lungomare di levante.
Chi di noi, che ha superato i 40 anni, non ha come ricordo, anche vago, il passaggio attraverso il Lungomare di Levante di Ortigia, pieno di belle donnine tutte colorate e succinte che specialmente nel periodo estivo sostavano lungo il marciapiede, avendo poi di fronte la casetta o meglio il dammuso dove esercitavano la professione di prostituta. Ve ne erano di tutte le età, ma sinceramente l’età media era altina, erano tutte italiane o quasi. In quel percorso, che iniziava in verità dalla Porta Marina, fino praticamente all’uscita del Lungomare, praticavano la professione più antica del mondo, almeno un 20-30 donne a tutte le ore del giorno. Classica la lucetta che ponevano fuori la porta che indicava la loro presenza. Tra gli anni “70 e gli anni “80, il fenomeno divenne quasi folcloristico, un bordello a cielo aperto e totalmente tollerato, a volte con gli amici, coi motorini, si faceva il giro dell’isolotto per andare a vedere le “Buttane” come se fosse la più interessante attrazione che la città ci offrisse. Ortigia non era l’isolotto felice di adesso, era degrado urbanistico e sociale, non esisteva l’isola pedonale, si posteggiava pure a Piazza Duomo. Il prezzo degli immobili era praticamente nullo, nessuno voleva vivere in Ortigia e chi ci viveva non vedeva l’ora di scapparsene. Ma già all’inizio degli anni “90 una serie di blitz delle forze dell’ordine riuscirono a ridimensionare il fenomeno della prostituzione. Soprattutto quando alla fine di quegli anni la riqualificazione di Ortigia contrastava parecchio con quella visione peripatetica. Inoltre il valore degli immobili in Ortigia quintuplicò, e si passò dallo status di immobili invendibili a quello di pregio assoluto, e non conveniva più affittarli alle prostitute.
Ognuna delle donne che esercitava la professione, aveva un nome o meglio spesso un soprannome, tra tutte, tutti ricordiamo quasi come se fosse una leggenda, la mitica Ianuzza a Uobba. Io non ho idea chi fosse ma ho ripercorso il suo ricordo grazie alla lettura di questo libro “Minchia di mare” di Arturo Belluardo (romanzo di cui parleremo in un altro articolo specifico), il quale in un capitolo del suo romanzo parla proprio di lei:
‘Nzomma dei miei amici io ero l’unico che, a sedici anni, non solo non aveva mai ficcato, ma che non aveva avuto neanche una zita per una stricatina. Questa del ficcare era diventata un’ossessione, ci pensavo tutto il giorno e tutta la notte: fimmine nude, minne, pacchi… Per compensare facevo ricorso ai giornaletti di pilu e ogni occasione era buona per minarmela. E più passava il tempo, più assai mi acchianava u pititto: stavo sempre con la minchia tra le mani. Finché un pomeriggio.Stavo stinnicchiato sul letto a taliarimi il numero speciale de “Le Ore” con Patty Pravo, quando mia madre, che non doveva essere in casa, trasiu improvvisamente nella stanza. “David….aaah!”. Io mi ero portato istintivamente le ginocchia al petto per nascondere l’erezione e mi ero messo a simulare esercizi ginnici di canottaggio. Mia madre nisciu sbattendo la porta. Mi cummugghiai in fretta e furia e mi chinai sulla scrivania a fare finta di studiare. Arrivò mio padre sbuffando, con la faccia annoiatissima. Senza togliersi lo sciasse dalla faccia, con la massima indifferenza, mi abbiò un cazzottone nella schiena che mi fece finire con la testa in mezzo alle penne. E ci aggiunse una grandissima tumbulata sul collo, che mi fece smettere di respirare.“A prossima vota” ringhiò a voce bassa, sempre più scocciato “vatinni a buttane, così tua madre non veni a scassare la minchia a ‘mmia.” Una volta tanto, mio padre mi aveva dato un buon consiglio. Si trattava ora di trovare una buttana idonea allo scopo. “Ianuzza a Uobba” fu il vaticinio all’unisono di Massimo Gallo e di Maurizio Quadarella “E’ l’unica buttana che va coi carusi”. “Arà, Daviduzzo, compare, che ti fai la prima ficcata: ti ci accompagno io da Ianuzza domani pomeriggio!” si offrì Massimo il cammello, scoppolandomi la nuca con un potente manrovescio affettuoso.“E vengo pure io, vah, che poi festeggiamo!” si unì Quadarella, colpendomi a sua volta ancora più forte. Nonostante fosse marzo, quel pomeriggio siracusano era talmente carico di scirocco che la luce riusciva a penetrare solo a lame orizzontali, uniformando il mare in una lastra d’acciaio. Io e Massimo lasciammo il vespone sul lungomare Alfeo, dove si accendevano le luci rosse delle buttane; il dammuso di Ianuzza era l’ultimo prima della curva, quasi a ridosso sul mare. Maurizio, con la sua 127 giallo maionese, ci superò alla ricerca di un parcheggio.M’ero tutto allicchittato: mi ero messo i pantaloni da cresima bianchi a zampa d’elefante, la camicia di seta grigio perla di mio padre e un maglioncino a righe orizzontali nero e bianco. Mano mano che mi avvicinavo al momento fatato della ficcata, le gambe mi tremavano, quasi quasi cadevo ‘nterra. Di eccitazione, di erezione, manco a parlarne.“Cà allestiti!” schigghiò Massimo il cammello e mi trascinò fino al dammuso della Uobba. Ianuzza aveva un cespo di capelli crespi tinti di biondo, un occhio più piccolo dell’altro, un porro con un pelo lungo e attorcigliato sotto il naso ferino, le minne rugose, le gambe gonfie e piene di varici. Indossava una vestaglia di tulle rosso trasparente e sotto era in reggiseno e mutandine.La taliai aggrinciato.La passeggiatrice, palesemente adusa a questo tipo di indecisioni minorili, mi aduncò con un gentile invito: “Gioia, devi ficcare?”Massimo Gallo mi cataminò all’interno. Nell’antro di calcare umido, dalla bassa volta, un letto di solo materasso e una bacinella e una brocca di ferro smaltato.“Sono quindicimila, si paga persubbito”.Dopo che le ebbi porto le banconote tremanti, Ianuzza mi avvicinò alla bacinella, mi fece abbassare i pantaloni, mi prese la minchia in mano e iniziò a lavarmela. Era la prima mano estranea, dai tempi dei pannolini, che si posava sulle mie grazie: mentre la mia minchia veniva lavata, io mi sentivo affogare nel sudore e nell’ansia. Panico, terrore in purezza. Il piacere, l’eccitazione erano rimasti nei discorsi di piazza, con il cammello ubriaco e con Quadarella. Con i pantaloni arrotolati alle caviglie, che davano un contributo alla pulizia del pavimento del locale, Ianuzza mi fece stendere sul materasso pieno di macchie niure e unte. La mia minchia era diventata una nocciolina, non dava segni di vita. E a Uobba applicò allora le tecniche di primo soccorso cui era adusa. “Shtai ferm col man” biascicò ai miei rozzi tentativi di carezze pubiche. Il lavorio orale iniziava a dare qualche effetto: appena se ne accorse, Ianuzza mi saltò in grembo.Bastarono pochi secondi e sentii una sensazione di bagnato e di calore proprio lì. A Uobba continuava a dimenarsi; passato qualche minuto, allungò una mano all’incastro tra i due sessi e strillò “E che minchia! Venisti?” Io ero ormai una lunga tenia sudata.“Non me sono accorto”, miagolai.Ma non era ancora quella la pietra tombale.Bussarono alla porta. “Ah, Benni, sì tu. Aspetta ca fazzu nesciri un cliente” .A Uobba, senza neanche darmi il tempo di allacciarmi i pantaloni, mi prese come un gattino per la collottola e mi spinse fuori dalla grotta.Mi fu fatale la zampa d’elefante.Inciampai e crollai rovinosamente ai piedi del futuro cliente della buttana.Man mano che alzavo lo sguardo, percepivo una nuova lucentezza, come se una nebbia grigiastra si fosse dissipata e finalmente potessi vedere il mondo nella sua variopinta realtà. Avevo ficcato. Ero grande. Ora vedevo tutto da grande.E vidi.Scarpe duilio bianche e marrone. Pantalone con pence beigiolino. Camicia a righine tabacco e crema. Peli brizzolati sul petto. La faccia di mio padre.“E ti futtisti magari la mia camicia!”.Il manrovescio mi fece volare lontano sul marciapiedi.Ad occhi chiusi, mi rannicchiai sul bordo della strada.La testa in mezzo alle gambe, piangevo come un pupiddo, dondolandomi avanti e indietro.Lo stridio di una frenata davanti a me mi fece aprire gli occhi. Erano Massimo Gallo e Maurizio Quadarella. I miei amici. I miei amici che, a bordo del vespone, erano venuti a salvarmi. Stentai un sorriso tra le lacrime. Quadarella mi taliò.“Ma chi ffai? Ficcasti e piangi? Stu pezz’i puppo! Aricchione!”E Massimo il cammello assieme a lui, in coro a buffuniarmi:“Puppo! Puppo! Ricchione! Ricchione! Puppo! Puppo!”
Non molti sanno che comunque Ortigia già dalla fine del 1400 era famosa in tutto il mondo per i suoi Bordelli. Il porto di Ortigia era una scalo importante dove trovavano ristoro uomini di tutto il mondo e i bordelli erano richiestissimi e facevano affari d’oro. Consiglio di leggere questo articolo del Giornale di Siracusa del 29 agosto 2016:
Per la cronaca l’ultima prostituta che ha continuato ad esercitare lungo quel viale, proprio al centro del Lungomare di Levante di Ortigia, ha smesso la professione non più di 10 anni fa. Tutti la ricordiamo al passaggio della nostra auto con la lucetta accesa davanti la porta, le cosce ben in vista e l’età stagionata, ma in un certo senso ci faceva ricordare ciò che nostalgicamente un tempo era quel luogo, un Bordello a cielo aperto, dove molti dei siracusani persero la loro verginità o altri trovarono ristoro alle fatiche della vita.
S.BELLIO